LO STADIO DI WIMBLEDON
DANIELE DEL GIUDICE
EINAUDI 2009
Dopo la curva la strada scende verso una vallata ampia, con un grande parco di erba rasa e alberi, e un lago artificiale. Ci sono grattacieli sullo sfondo, villette isolate, campi scoperti; e al centro, improvviso e pacato come una visione, lo stadio del tennis, lo stadio di Wimbledon. Soltanto adesso mi rendo conto di dove sono. Guardo laggiú l’edificio basso con la grande tettoia arrotondata: è un impluvio morbido in cui si raccoglie l’attenzione del paesaggio, e dove finisco anch’io.
L’unico ingresso aperto è il padiglione del museo. Cosí mi fermo a guardare il modellino di un campo da gioco africano, tagliato in due dalla rete ma anche dall’equatore, in modo che la palla viaggia da un emisfero all’altro. O lo spogliatoio d’epoca, dove un colletto duro e una giacca fanno finta che dalla porta sullo sfondo arrivi qualcuno e li indossi. Anche la racchetta incompleta nel falso laboratorio fa pensare a un falegname.
Tutti gli oggetti sono isolati dalle passioni, in una loro perplessità, come le foto. Qualche tennista, col braccio e il mento tesi all’insú e la mano aperta senza piú la palla, sembra avere un suo speciale rapporto con il cielo. Poi si è messo in moto il disco di una radiocronaca piena di fruscii; è difficile capire i nomi, cerco l’uscita. Nei passaggi e nelle scale bianche c’è già la sensazione di un colore diverso sopra; dopo un’ultima rampa sguscio nello stadio deserto, mi siedo all’inizio di una panca.
Non so se è il campo d’erba, o il verde opaco uniforme con cui tutto è dipinto, a rendere lo spazio cosí raccolto. Forse è la tettoia: in alto segna un margine netto, verde a filo dell’azzurro, in basso scende come un cappello e inghiotte gli spettatori nel buio da cui guardano. Quelli che lascia scoperti, cioè le panche laggiú, debbono sentirsi attorno al campo come a tavola.
Quasi non mi accorgo dei tre ragazzi che si sono seduti qui accanto, subito al di là dei gradini. Fisso come loro il campo vuoto, dove la palla avrà tracciato un otto orizzontale tra un giocatore e l’altro, come il segno dell’infinito. Si tratta di tramare contro quel movimento perpetuo con lo stesso colpo con cui bisogna ricucirlo.
Adesso, con lo sguardo piú abituato, distinguo i profili che soli indicano una differenza tra le cose: il tabellone dei numeri o gli ordini delle tribune o quello che per la sua posizione appena rilevata non può che essere il palco reale; i ragazzi si sono seduti lí, provano probabilmente un punto di vista. Poi camminano ancora ai bordi del campo, fino a una scaletta in discesa. Spariscono dal margine dell’occhio